Il dolce del prelato…

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Mio marito stava in piedi davanti al portone e mi guardava atterrito. “Non penserai di uscire con quella roba?!? Scordati che io ti accompagni!” mi diceva, con il tono di chi sa già cosa lo attende.
“Non solo lo penso, ma lo sto già facendo: sono fin troppo in ritardo!” e intanto mi infilavo il cappotto e scendevo di corsa le scale portandomi sottobraccio quel voluminoso fagotto.

Il negozio – una fornitissima bottega di utensili da cucina – era la mia ultima ancora di salvezza, dopo una mattinata persa a selezionare pentoloni in un paio di cucine amiche.

“Buongiorno! – esordisco, presentandomi al bancone dal mio lato sinistro, dove porto la tracolla di Gucci ormai vintage. – Mi servirebbe una pentola di alluminio piuttosto grossa.”
“Grossa quanto, scusi?” mi chiede la proprietaria.
“Beh, diciamo… almeno trentotto centimetri.”
“Trentotto centimetri?!? Ma cosa ci deve cucinare?” e sgrana gli occhi in un’espressione tra il dubbioso e l’attonito.
“Questa!” faccio io, sfoderando da sotto il mio braccio destro quel fagotto che avevo accuratamente occultato.

Lei, preparata con amore dal mio mitico macellaio di città e miracolosamente passata ai controlli aeroportuali nascosta in un bagaglio da stiva, si offre sfrontata agli sguardi dei presenti in tutta la sua fulgida bellezza. In un attimo son tutti lì, a bocca aperta come dinanzi a un miracolo della natura: perché in quest’isola di agnelli e di porcetti, una tacchinella disossata ripiena, ammantata da un sensualissimo velo di pancetta, addobbata con rami di rosmarino e strizzata in una rete di spago a effetto matelassé, pare non l’abbiano mai vista.
“Ma cos’è, un pesce?” osa la proprietaria, mentre tre clienti in pelliccia fresche di parrucchiere si avvicinano curiose.
“Nossignora: è una tacchina.” rispondo un po’ sdegnosa, offrendomi al bancone finalmente di fronte.

Mi interrogano come se volessi cucinare un unicorno e in quattro partecipano alla scelta del recipiente adatto alla bisogna: perché in questa bottega le pentole fuori standard le tengono in alto, e si deve salire all’ultimo piolo della scala per recuperarle. Così la negoziante le porge verso il basso alla signora cotonata, che le passa a me che provo a infilarci la tacchina e poi le rendo alla signora platinata, che le riporge alla proprietaria. Mentre la terza signora, corvina-bluette, disquisisce a vanvera di restringimenti di carni in cottura.

Mio marito mi ha vista uscire dal negozio – dopo venti minuti di prove e misurazioni, e il tentativo di convincermi a mutilare la tacchina rea di avere un derrière di inusuale imponenza – con un pentolone di alluminio di mezzo metro di diametro. Ci ho messo dentro quello che sarebbe stato il piatto forte del mio cenone, e ho attraversato la piazza tra gli sguardi e le battute degli operai che montavano il palco per il concerto di Capodanno.

La pentola era perfetta, ma così grande che l’ho dovuta usare con due fornelli contemporaneamente. La tacchina ha ben figurato, in compagnia di altre varie e ben nutrite portate. I fuochi d’artificio sulla piazza hanno fatto il resto ed è stato un fine d’anno indimenticabile.

Ora, ditemi voi: cos’altro avrei potuto fare alle 12.30 del 31 Dicembre, sapendo di avere tredici persone a cena e scoprendo di non possedere una pentola adatta, se non uscire di casa correndo, con una tacchina sottobraccio?

Buon inizio d’anno a tutti!

P.S.: della tacchina non è restata traccia, se non qualche fetta nel freezer. Ma non volevo rinunciare a lasciar traccia della sua storia. Sicché non vi sembri troppo strampalata l’idea di dedicare questo post a un dolce, che con la tacchinella ripiena ha condiviso la scena nel mio cenone di Capodanno.
E’ un dessert al quale sono molto affezionata: l’ho preparato per anni, da ragazzina, per il pranzo di Natale a casa di mia nonna. E’ stato il primo dolce che ho imparato a fare (da una ricetta de “La cucina Italiana”) e ancora oggi mi sembra come allora: semplice e buonissimo.

IL DOLCE DEL PRELATO…

INGREDIENTI

savoiardi soffici: 300 gr circa (o, in alternativa, del pan di Spagna a fette)
cioccolato fondente: 150 gr
zucchero semolato fine: 50 gr
burro salato: 50 gr
uova: 5 (freschissime, le usate crude…)
caffé: una caffettiera da otto tazze (e qualcosina di più)
rhum: 2-3 cucchiaini

per guarnire:
panna fresca da montare: 250 ml

Fate il caffé (una caffettiera da otto tazze forse è un po’ pochina, fatene dell’altro di riserva), diluitelo con il rhum e 3-4 cucchiai d’acqua e lasciatelo raffreddare. Poi inzuppatevi velocemente i savoiardi da entrambi i lati e utilizzateli per foderare uno stampo da ciambella.
Quando avrete finito, mettete lo stampo in freezer e lasciatecelo finché i savoiardi non saranno duri al tatto (ci vorranno un paio d’ore).

Preparate il ripieno come una normale mousse: spezzettate il cioccolato e fatelo sciogliere a bagnomaria con il burro, poi lavorate a crema i tuorli con lo zucchero e due cucchiai di caffé, e infine montate gli albumi a neve ferma.

Quando il cioccolato si sarà intiepidito, aggiungetevi prima le uova con lo zucchero (mescolando con forza), e poi gli albumi a neve (mescolando delicatamente dall’alto in basso per non smontarli).

Rovesciate il composto nello stampo (che nel frattempo si sarà gelato) e rimettete in freezer.

Quando anche la mousse si sarà rappresa (ci vorranno una-due ore), tappezzate di savoiardi imbevuti nel caffé anche la base dello stampo, in modo tale da sigillare perfettamente l’interno cremoso nell’involucro di biscotti. Sigillate con la pellicola e tenete in freezer per alcune ore (meglio ancora un giorno intero).

Al momento di servire, riempite una teglia di acqua bollente, immergetevi lo stampo per qualche secondo e rovesciate il dolce sul piatto da portata. Guarnitelo con panna fresca montata non zuccherata.

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Dell’arte di preparar lo stampo
Preparatelo con un paio d’ore d’anticipo, per dar modo al rivestimento di indurirsi e restare perfettamente separato dal ripieno.
Siate molto rapidi, perché i biscotti si imbevono in un attimo: strizzateli delicatamente se assorbono troppo liquido. E cercate di disporli secondo un disegno regolare, “stuccando” accuratamente le fessure con pezzetti di savoiardo su misura e sigillando eventuali fughe con una pappetta di biscotti e caffè perché non ci siano buchi.

I biscotti migliori?
Sono i savoiardi soffici sardi, quelli grandi e morbidissimi che nell’isola chiamano pistokkeddos. Solo uova, zucchero e farina, zero grassi e un gusto unico. Si trovano ormai anche in molti negozi e supermercati in giro per l’Italia o, in alternativa, su Internet. Se non li trovate, optate piuttosto per un buon pan di Spagna artigianale, da fare a fette di un centimetro.