Gazpacho di bucce di anguria e cetrioli

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Gazpacho di bucce d'anguria, by FRAGOLE A MERENDA

Riassunto delle puntate precedenti:
(Prima puntata) Una foodblogger alla ricerca di fichi per la marmellata s’imbatte al mercato in un fruttivendolo che, armato di scimitarra, le offre un’anguria di Mantova. Sedotta dal colore del cocomero, cede alle lusinghe dell’uomo: si fa vendere mezza pesantissima anguria – anche se lui l’avverte che non ci potrà fare la marmellata – e se la trascina fino a casa.  Mentre sale a piedi i centosettantacinque scalini che conducono al suo portone (odia gli ascensori) la donna decide che non sarà un fruttivendolo a farla desistere dal cucinare un cocomero e pensa bene di regalarsi un pomeriggio di esperimenti in cucina all’insegna della più giocosa spensieratezza (… credetemi, se lo merita, n.d.r.).
Ne nascono un vasetto di gelatina d’anguria e una buffa foto, dalla quale si evince che la foodblogger gira per casa con un paio di infradito bianche e dello smalto color cocomero sulle unghie.

(Seconda puntata) Sospinta dal vento di maestrale, la protagonista atterra come Mary Poppins in un’altra cucina. Qui, ostaggio di una banda di operai intenti ad abbattere intonaci, è costretta a barricarsi in un paio di stanze stipate all’inverosimile e a dormire a ottanta centimetri da terra avendo infilato il materasso di sua figlia sotto il suo per tenerlo al riparo dalla polvere. Si sveglia ogni mattina in preda alle vertigini, ma essendo ormai giunta alla fase zen della sua vita non se ne lamenta: vagheggia però la marmellata di anguria nata come sottoprodotto della gelatina di cui sopra, nel corso di quello spensierato pomeriggio. E ne raccomanda l’uso ai suoi amici di penna e di fornelli, gli unici a condividere con lei il racconto delle sue traversie domestiche.

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Qui cucina di Fragole a Merenda, ottavo giorno dall’inizio dell’assedio. Teli di plastica alle finestre non m’impediscono di vedere una schiarita all’orizzonte. Dopo due giorni di tempesta e altrettanti di calma piatta, il dio Eolo si è ricordato di noi: ormai veleggiamo spediti verso la meta. Non è stato facile domare un ammutinamento due ore dopo la partenza. Un comandante con gli orecchini di perle non è visto di buon occhio in questi mari del Sud. Ci sono frangenti nei quali uomini e donne sembrano pianeti diversi più che le due metà dello stesso mondo: parlano lingue diverse, pensano a soluzioni diverse, ed è come se vedessero le cose da dietro lenti di diverso colore.

Ma i miei occhiali sono rosa (quelli scuri non mi donano…), e hanno il vantaggio di lasciarmi vedere oltre il velo di calce che offusca lo sguardo dei miei muratori-marinai. Loro si rassegnano alla polvere, io no: soprattutto da quando ho scoperto che hanno inventato dei leggerissimi teli di cellophane che posso attaccare oltre le porte con del nastro di carta. In questo modo circoscrivo il problema: la mia stanza è stipata come una wunderkammer, ma è pulita e profuma del mio pot-pourri preferito. Non è una pretesa capricciosa: ne ho bisogno…

Così, armata solo di teli di plastica ho fronteggiato due insorti col piccone.
“Non mi deve dire lei come si lavora: io il mio mestiere lo so fare…” mi ha detto minaccioso il capociurma.
“Anche io, mi creda… L’ultima volta che lei è venuto mi ha impastato la calce sul pavimento: ho passato tre giorni in ginocchio e la macchia c’è ancora…”
“Guardi che me ne vado a casa…” mi ha sfidato con le mani sui fianchi.
“Come preferisce: io qui ho bisogno di gente che lavori con piacere.”
E’ fuggito lasciandosi alle spalle due stanze di macerie fumanti.

Il giorno dopo, io e il cercatore di lumache abbiamo provveduto a raccoglierle: io avevo uno chignon bianco di polvere e lui – saggezza del mestiere – un fazzoletto da naso annodato sulla testa. Non ai quattro angoli, però, ma solo a due: pareva avesse un képi della Legione Straniera… Si muoveva lento: mi raccontava di sua moglie che prepara biscotti per ogni ricorrenza familiare, e dei maialetti che lui arrostisce nel forno a legna quando non è in campagna a cercar lumache. Io gli sorridevo mentre tenevo aperto il sacco di juta nel quale lasciava cadere palettate di calcinacci, e pensavo che a forza di correr (?!?) dietro alle lumache ne aveva acquisito inevitabilmente il ritmo…

Mi ha stretto la mano tre volte prima di andarsene. “Venga a salutarmi quando passa dalla mia frazione in corriera (mi aveva guardato come una farfalla rara quando gli avevo detto che vado al mare in pullman…). Chieda di Antonio, che le offro dei biscotti… E se le servono lumache, mi chiami la sera prima.”

Il giorno dopo sono arrivati in tre: solo uno aveva un fazzoletto in testa, ma era una bandana a disegni provenzali. Annodata sapientemente dietro il collo, lasciava fuoriuscire un vistoso cerchio d’oro all’orecchio sinistro. Il suo compagno aveva sottili ghirigori di barba perfettamente disegnati sulle guance.
“Dev’essere che la nuova generazione di edili è più attenta al look…” ho pensato mentre gli affidavo le mie stanze.

In tre giorni hanno fatto un lavoro immane: tutto al di là dei teli di cellophane, che si sono appassionati a incerottare su ogni superficie possibile… Li osservavo lavorare e pensavo a quanto fossero diversi dal loro collega col fazzoletto-képi. “Sarà questione di lumache – mi dicevo – Se uno passa le giornate appresso a loro, finisce per acquisirne la lentezza…”

Solo ieri sera, quando se ne sono andati dopo aver spazzato persino il pavimento, ho scoperto che i miei pensieri in fatto di gasteropodi con casa appresso erano nient’altro che preconcetti. “Signora, ci chiami pure qundo ha bisogno. E se le servono lumache… quindici euro una retina da sessanta. Le raccogliamo il sabato.”

Non mi sembra il caso di chiudere dei lumaconi in un cantiere ancora fresco di calce: non sarei psicologicamente in grado di reggere alla visione delle mie pareti trasformate in una rete stradale di bava luccicante, al mio prossimo arrivo. Così ho rimandato l’acquisto. Ma anche oggi chiudo la giornata in positivo: una conferma e una scoperta all’attivo. Primo: ricordarsi che le apparenze ingannano. Secondo: il ritmo delle lumache non è contagioso…

Saluti e baci (freschi di calce),

S.

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Epilogo:
Partita in fretta e furia senza bagagli, la foodblogger ha dimenticato a casa l’agenda sulla quale annota i suoi appunti di cucina.  Avendo promesso agli amici di penna e di fornelli di svelar loro il suo terzo esperimento con l’anguria – anche per chiudere la bizzarra Cocomereide fuori stagione… – si trova nell’incresciosa situazione di dover pubblicare un post senza ricetta: il che non sarebbe previsto dal codice deontologico dei bloggatori culinari seri… Impossibilitata a bluffare (è geneticamente predisposta alla trasparenza e imbranatissima nell’inventar bugie), decide di raccontare la verità, pubblicando solo le foto del suo gaszpacho di bucce d’anguria (che era buonissimo…) e rimandando al suo ritorno a casa l’aggiornamento con dosi e ingredienti giusti. Confidando nella comprensione dei suoi lettori. E nel fatto che oramai persino quel suo fruttivendolo armato di scimitarra avrà finito le angurie di Mantova: e di cocomeri non si tornerà a parlare prima della prossima estate…

GAZPACHO DI BUCCE DI ANGURIA E CETRIOLI

INGREDIENTI

bucce di anguria
cetrioli
pomodorini
pinoli

pane raffermo
prezzemolo
aglio
cipolla
aceto